Storie di Basket


Joe Hammond, 'Il Distruttore'
 

Dedicata a Marghe.

 

 

 

 

Rubrica di
Riccardo Romualdi

"Per statura Joe Hammond
è il più grande giocatore
mai prodotto da New York"

Coach Don Adams

Caldo. Madonna se fa caldo. New York, Luglio 1970. Rucker Park, il più famoso playground al mondo, la San Pietro della cristianità dello streetbasket. Finali del Rucker tournament. In questo lato della grande mela è l’Evento con la maiuscola. Sulle tribune tutta l’ “aristocrazia” locale: spacciatori, papponi, capi di posse varie e pregiudicati più o meno redenti. In campo, già bollenti da qualche ora, i finalisti che poi vi presenteremo. Tra questi tal Julius Erving, colui che incanterà la Nba diventando l’avo di Michael Jordan, e che verrà soprannominato, con poco sforzo di fantasia, Doctor J. Il Dottore ha dominato, fino a questo punto, il Rucker. Stoppando in difesa qualsiasi satellite voli dalle sue parti, col classico stile della strada che ti insegna che la “vera” stoppata, quella che fa parlare la City per giorni, è quando la palla ti rimane attaccata al palmo della mano ed atterra con te, che puoi anche perdere qualche secondo ad urlare in faccia allo stoppato, sperando che questo non sia permaloso altrimenti son botte. Dicevamo: il Dottore domina in difesa e, ça va sans dire, in attacco dove arriva al ferro con una certa qual facilità.


Dr. J al Rucker Park

Direte voi: si ma a New York, invece di rischiare i denti contro i cristoni in mezzo all’area, tirar da fuori sembra brutto? Tecnicamente no, architettonicamente decisamente si. Spiego: la maggior parte delle palestre delle scuole, diciamo, non di prima fascia, quelle in cui una sana perquisizione prima dell’ora di storia è consigliabile, sono state costruite ad inizio ventesimo secolo, col risultato che i soffitti delle palestre sono troppo bassi, quindi se tiri da tre fulmini le lampade, e se vuoi far canestro devi andare al ferro, sempre. Se vi chiedete perché i prodotti dei playground newyorkesi (Marbury, Alston, Robertson…) hanno tiro da fuori ondeggiante ma penetrazione spumeggiante, adesso avete la risposta. Torniamo alla finale del Rucker. Da una parte la squadra del dottore, quelli della parte ovest della zona, tra le cui fila annovera Bylly “The Wooper” Paultz star della Aba, Charlie Scott primo nero reclutato da University of North Carolina del “Generale” Dean Smith, e Mike Riordan difensore irreale dei Knicks. Dall’altra gli “eastsiders” talentuosi ma non esattamente allenabilissimi, con “Pee Wee” Kirkland, Erik Cobb e Joe Thomas. Ed in aggiunta la star, quella vera, quella aspettata da tutti. Perché Erving qua è uno dei tanti. Ma la star non arriva. La partita deve iniziare all’una, ma si aspetta che Joe Hammond (la star di cui sopra) o, meglio, “The Destroyer”, il distruttore, com' è conosciuto in tutta New York, si degni di palesarsi sull’asfalto.


Quando il playground si fa leggenda: The Rucker Park

Passata una sana mezz’ora, il pubblico comincia ad innervosirsi e, per evitare che i “ferri” vengano tirati fuori, si alza la palla a due. Si gioca, il primo tempo vola via tra schiacciate ed alley-oop, ma manca qualcosa e tutti lo sanno. Un boato. Il pubblico si alza in piedi. La partita si ferma. The Destroyer, con andamento caracollante e con lo sguardo delle star di Hollywood che passano sul tappeto rosso, arriva tra due ali di folla pronte al cinque alto. Un metro e ottantaquattro, diciottenne e già leggenda. Mica male. Hammond sorride ed entra in campo, prima però per mettere un po’ di peperoncino, uno spettatore molto interessato gli indica Erving “oh, quello è forte, anzi è “il più” forte”. Ghigno del distruttore. E poi antologia, leggenda vera dello streetbasket. L’uno contro uno tra Erving ed Hammond rimane probabilmente il punto più alto della storia dei playground americani. Alla fine dei due tempi supplementari, Erving alza la coppa, ma Hammond entra nella leggenda per avergli sfisarmonicato davanti tutto il suo incommensurabile talento: cinquanta punti di prepotenza assoluta partendo da venti centimetri più in basso. E allora, se adesso vi chiedete il motivo per cui i ragazzi degli anni ’70 avevano Dr.J  sulle pareti in maglia 76ers e non Hammond in maglia Lakers, la risposta è tra quelle più semplici quando si parla di storie di strada: droga, gente. Tanta, tantissima droga, sommando quella che Hammond vendeva e quella che usava per distruggersi. Nato ad East Harem nel 1952, la povertà come compagna fissa di vita, in un quartiere che non è quello in cui Bill Clinton adesso vive in lussuoso loft, ma quello dei casermoni dove la polizia non entra nemmeno dopo aver sbagliato strada, Hammond fa conoscenza con la criminalità come in un quartiere normale si conosce il panettiere. Ed entra a farne parte in pompa magna, ed il rispetto che si guadagna sui playground della Big Apple lo “aiuta” ad incrementare il business.


Con la palla, Joe "The Destroyer" Hammond

Earl Manigault, al secolo “The Goat”, il più incommensurabile giocatore della storia della strada, già devastato dalla droga, capisce che Hammond è talento vero e cerca di fargli capire, nei momenti di sempre più rara lucidità, che se sfrutterà il proprio talento, se continuerà ad andare a giocare nella Public School Athletich League con coach Don Adams (“per statura Hammond è il più grande giocatore mai prodotto da New York” dirà anni dopo il coach), e se soprattutto starà lontano, molto lontano, dalla droga, da lì a qualche anno i milioni di dollari arriveranno a pioggia per mettere l’arancia dentro un cesto. Tempo perso. Per Hammond gli unici soldi veri sono quelli che arrivano dalla bianca signora


Earl "The Goat" Manigault

Anche quando, l’anno dopo quell’antologico uno contro uno, nel 1971, Jack Kent Cook, proprietario dei Lakers lo seleziona col numero 5 all’hardship dratf e gli offre cinquantamila dollari non garantiti. Detto ad uno che quei soldi li fa in un mese per strada e che ha duecentomila dollaroni nascosti nel controsoffitto della sua magione, non fa un grande effetto, ed è esattamente quello che pensa “The Destoyer” che manda tutti a vender ceci, gira i tacchi e saluta, tornando per strada e abbandonando il basket. Fino al 1977, quando gli dicono che la finale del Rucker sarà ripresa per la prima volta dalla Tv via cavo e tutti si aspettano l’apparizione del distruttore. Hammond appare, per l’ultima volta, e ne pennella 73, record tutt’ora imbattuto e forse imbattibile. Poi il declino e la fine. Ed il carcere. Primo giro tra il 1985 ed il 1988, in cui diventa ovvia leggenda della “Prison League”, dove storie narrano di centelli sparati in faccia a gente che sarebbe potuta essere ma, esattamente come Hammond, non è mai stata. Secondo giro, perché imparare non è mai una buona strada, nel 1990 dove in una colluttazione in carcere rischia la pellaccia. Poi, esattamente come gli altri due della trimurti della storia dello streetbasket newyorkese, Earl “The Goat Manigault ed Herman “The Elycopter” Knowings, il tentativo di redenzione. Oggi Joe Hammond, fu “The Destroyer”, fa il volontario in un’associazione che aiuta i ragazzi vittima della droga. Il distruttore ha distrutto sé stesso, ma non vuole che gli altri facciano lo stesso. Chissà che la “magia nera di Harem” questa volta ce la faccia per davvero.

 

 

Storie di Basket, Il Libro

Prefazione di Federico Buffa

Riccardo Romualdi
Contributo originale a cura di forlibasket.it.
Se ne autorizza il "copia & incolla" (totale
o parziale) previa citazione della fonte.



A cura di
Riccardo Romualdi
riccardoromualdi@forlibasket.it



Articolo pubblicato
Domenica 09 marzo 2008 14:59

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