Storie di Basket


Steve Space, la leggenda di Chicago
13 fratelli, uno straordinario talento... e quell'1-contro-1 con MJ...

A cura di
Riccardo Romualdi


La storia che state per leggere non è presente nel libro Storie di Basket

"Steve Space? Il più forte giocatore che
non abbia mai giocato nella Nba"

Tim Hardaway

Chicago. 1987. Playground della Anton Dvorak Middle School, un’università della strada per intenderci. Su questo pavimento rabberciato alla meglio, Lamarr “Money” Mondane tutti i giorni fa frusciare la retina. Chi? Andate a Chicago e chiedete di “Money”: vi parleranno del più incredibile tiratore mai visto da occhio umano, uno che pennellava un giro e tiro da 8 metri e tornava in difesa senza vedere dove sarebbe finita la palla... perché già lo sapeva. E’ pomeriggio, agosto, un caldo infernale. Ma qui si gioca perché, dalla mattina alla sera, la strada non ha moltissime vie di svago. Un ragazzino di 17 anni vola sull'out di sinistra. A condurre le danze c’è Tim Hardaway in contropiede, accompagnato dal crossover che lo renderà un All Star da lì a breve. Passa la palla al fulmine a sinistra che riceve, lascia sulle sue tracce Byron Irvin (scelto poi dai Blazers) con un battito di ciglia, e poi si dirige verso il canestro. Davanti si trova un colosso di due metri che mai diventerà un giocatore, ma che in quel momento già pregusta uno stoppone con poca fatica e lo stuzzicadenti in bocca. Il ragazzino, con ghigno beffardo, afferra con la mano sinistra il pallone, se lo porta dietro la schiena, con un rapido tocco delle dita lo alza sopra la spalla destra e, semplicemente, decolla: con un balzo, raggomitolando le gambe, balza sopra il l'omone con lo stuzzicadenti che gli si para davanti e va ad inchiodare il canestro che Hardaway definirà anni dopo "il più grande canestro che abbia mai visto". Nome del proprietario di tale prodezza è Steve Space, e già nel cognome un minimo di destino è ampiamente stampato. Non aspettatevi storie di droga e sparatorie. Oddio, non aspettatevele all’inizio della sceneggiatura. Perché poi arriveranno, oh se arriveranno. Anche perché se non arrivassero, a quest’ora staremmo parlando di un Hall of Famer, mica di un simil reverendo redento dalla droga ex fenomeno di basket. Non ci avete capito una mazza?  Per forza: bisognerebbe raccontarvi tutta la storia. E allora facciamolo.


Tim Hardaway

Steve Space nasce nel 1970 nel West Side di Chicago, all’angolo fra la 16th Street e Kedzie Avenue, non lontano dal Garfield Park, in un quartiere che ai tempi aveva il più alto tasso di omicidi nel paese, ed un numero di gang minorili in netta doppia cifra. Se avete visto in vita vostra “I guerrieri della notte”, ecco una buona fetta della sceneggiatura prende spunto da quartieri come questo. La famiglia Space però, lotta ogni giorno per tenere lontana la pargolanza dalla strada. George Sr. sgobba per diciotto ore al giorno per pagare la casa, di proprietà, e garantire serenità economica alla famiglia. La sera il passatempo è riunire tutti i ragazzi nel salotto, controllare che nessuno sia per strada e andare a letto, luogo dove papà George ha percentuali jordanesche, visto che impalma mamma Mary con una regolarità tale da farle mettere al mondo qualcosa come 13 figli. Mamma Mary, poi, per rafforzare il concetto di “state lontani dalla strada”, due sere a settimana, prende qualcuno dei suoi figli e li porta in piena notte in giro per il quartiere, possibilmente dove la polizia sta intervenendo, per far vedere ai suoi figli che fine si possa fare ad ascoltare il sound della strada.

 

Mamma Mary odia il basket. Pensa che sia un semplice ricettacolo di spacciatori, gangster e papponi e che avvicini fin troppo i ragazzi alla droga. Leggendo altre storie del ghetto è durissima darle torto. Concede solo ai due più grandi di giocare. E solo in orario scolastico. Per gli altri figli, Steve compreso, il basket è tabù. George Sr., intanto, devastato da una vita di lavoro e di responsabilità, scopre l’alcool. Da una sbronza alla settimana, si passa a due, poi a quattro fino a deragliare del tutto, costringendo i figli più grandi ad andarlo a cercare nei bar per riportarlo nel famoso letto. Una sera delle tante, una di quelle in cui la bottiglia ha tenuto ottima compagnia, George Sr. riesce miracolosamente a trovare la via di casa autonomamente; appena varcata la soglia, inciampa e sbatte con la testa in uno spigolo. I figli accorrono e, senza curarsi troppo del bernoccolo, lo prendono di peso, come abitudine, e lo scaraventano sul letto. La mattina dopo, Steve, si arrampica sul lettone per andarlo a svegliare. Nessuna risposta. Un ematoma cerebrale ha reso orfani di padre tredici ragazzini. Ed è l’inizio di un incubo.

Mary Space, si trova da casalinga a madre/vedova disperata dinnanzi alla prospettiva di dover sfamare 13 bocche senza peraltro un dollaro in tasca. Vende casa, vende l’auto e accetta qualsiasi lavoro le consenta di guadagnare qualcosa. Il risultato è che se ne sta via dall’alba a notte inoltrata, lasciando i figli da soli in un quartiere dove non ci sono le caprette che ti fanno ciao. Steve Space, solo, decide di direzionarsi verso il campo da basket, centro di raccolta di tutti i coetanei più o meno incensurati della zona. I primi tempi guarda. E impara. Ad una velocità imbarazzante. Arriva lì la mattina, appoggia lo zaino della scuola dove dovrebbe andare, e osserva fino a sera. Poi quando tutti se ne sono andati, prova allo sfinimento i movimenti che ha visto. Un rudimentale autodidatta. Quando arriva il momento di giocare con gli altri, gli autoinsegnamenti funzionano, il talento incanta e le gambe, esplosive come quelle di nessun altro, fanno il resto. Domina. Ma diventa un ragazzo di strada. Quando la Farragut Academy, prova a farne un giocatore, Steve, abituato pochino ad andare a scuola e tantomeno a studiare, di mettersi bello disciplinato ne ha poca voglia. Preferisce, eccome, l’asfalto nero del playground. La Farragut resiste per anni nel tentativo di tirar fuori il diamante che c’è dietro quel mostro fisico di 1,85, che salta qualcosa come un metro e venti da fermo. Però non ci riesce. All’ennesima bravata del nostro, gli fa fare armi e bagagli e lo sbatte fuori.

 

Le Università lo guardano con sospetto, qualcuna ci prova ma i risultati sono scarsi. Steve non si riesce a disciplinare. E’ il 1989. La Nike, che a Chicago avrebbe un giocatorino da sponsorizzare di nome Jordan, vuol lanciare l’ennesimo paio di scarpe. Questa volta vuol provare a puntare sui giocatori di streetbasket, mercato nuovo che da lì a qualche anno esploderà togliendo tutta la “poesia” a quell’ambiente. L’idea dei pubblicitari è di mettere di fronte il più forte giocatore di sempre, Jordan appunto, con un leggenda del playgorund. Ed in quel momento LA LEGGENDA dei playroground è uno e uno solo: Steve Space. Viene chiamato, gli vengono sganciati bei dollaroni, e gli viene spiegato che dovrà far finta per un quarto d’ora di giocare con MJ, in modo da fare una decina di pose, e buonanotte. Il piano però deraglia. Uno che “c’era” racconta: “C’era una strana elettricità nell’aria quel giorno. Per chi è di Chicago trovarsi di fronte le due leggende ‘locali’ uno contro l’altro era un’emozione indescrivibile. Dovevano giochicchiare dieci minuti. Poi però Micheal in un’azione stoppò Steve Space volando sopra il ferro, e di molto. Nell’azione successiva, Space gli tirò in faccia, fece canestro, ed iniziò a prenderlo in giro come si fa per strada. Oh, per prendere in giro MJ ce ne voleva di coraggio! Beh, da quel momento in poi iniziarono a giocare per davvero”.

Si, giocano per davvero. MJ vince 12-8. Sudati. E non è poco per niente. Il problema è che la vita di Space va a sud ben presto. Non considerato dalle università, decide di smetterla col gioco e diventa allenatore di un gruppo di ragazzini. Intanto però la cocaina entra nella sua vita
.


Steve Space affrontò questo qua...

Ne fa conoscenza piano piano. Prima una volta alla settimana. Poi due, tre, quattro, nella stessa via che il padre aveva preso con l’alcool. Quando il suo fisico diventa dipendente dalla cocaina, Steve in una botta di orgoglio smette di fare l’allenatore perché non vuole che i ragazzi abbiano un cattivo esempio davanti agli occhi. Per anni la droga è l’unica compagna fissa di uno che Tim Hardaway definisce “il più forte giocatore che non abbia mai giocato nella Nba”. Poi nel marzo 1995, la figlia di un amico che gioca a basket gli chiede dei consigli, e in Steve si risveglia una passione solo sopita.

Alla disperata ricerca di un posto come istruttore o allenatore, Space seppellisce di curriculum tutte le scuole, i boys’ club e le YMCA della zona. Inutilmente. Nel frattempo, campa facendo l’autista per la UPS. Intanto però la smette con la droga. Oggi ha trovato la religione come ragione di vita e porta sempre con sé una Bibbia da cui, dice, trae la forza per andare avanti. Forse il cocco di mamma Mary ha trovato in Dio ciò che il basket gli ha sempre promesso e mai mantenuto: come diventare grande.



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Riccardo Romualdi
Contributo originale a cura di forlibasket.it.
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A cura di
Riccardo Romualdi
riccardoromualdi@forlibasket.it



Articolo pubblicato
Lunedì 26 novembre 2007 15:38

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