|
![]() | Rubrica di Riccardo Romualdi |
Prendete un guerriero Dinka, un giocatore di basket, un giocatore di hockey, un pugile, un guerrigliero, un benefattore. Shakerate il tutto, aggiungete 2 metri e 36 ed un fisico al cui confronto quello di Kate Moss sembra un quadro di Botero, con in più un pizzico di gargantuesca ingenuità e una tonnellata di leggenda. Avrete la storia di Manute Bol, in assoluto il giocatore di basket (e non solo) a cui sono legati il maggior numero di aneddoti e leggende a memoria d’uomo. Da dove cominciare? Dal loggione direbbero: ‘Beh, iniziamo dal principio’. Si, fosse facile. Allora: Manute nasce ufficialmente nell’ottobre 1963 a Turalei, Sudan. Ma potrei anche dirvi novembre 1967 o luglio 1952 che sarebbe più o meno uguale. Perché Manute nasce in mezzo alla savana, dove non è che i dipendenti dell’anagrafe abbondino e quindi la data in cui viene messo al mondo è, per così dire tirata un po’ a caso.
|
La leggenda vuole che sia un re Dinka. Non proprio: è un discendente di una famiglia nobile. Nobile, oddio... non immaginatevi palazzi e ancelle più che disponibili; a quelle latitudini essere nobili vuol dire avere qualche capo di bestiame ed un pezzo di terra. Stop. Tutto il resto non è noia, ma fame, tanta fame. E miseria, accompagnata a stenti inenarrabili. Anche perché Madut Bol, padre del ragazzone, ha pensato bene di impalare ottanta mogli, con relativa pargolanza, quindi quando si è poi trattato di dividere l’eredità, non è che le fette siano state poi così luculliane. L’educazione di Manute è, come dire?, alquanto spartana: accudire le mucche e coltivare il terreno è il massimo di range culturale che può avere un nobile dinka. Manute cerca qualcosa di meglio: un paio di volte prova a scappare dal villaggio. Ma un susinone del genere è dura che passi inosservato. Riportato in villaggio a mazzate, ci prova con lo sport. Calcio? Si, va beh, buonanotte. Il fratello, alto 1.70 (vai a capire…) gli consiglia, con raro akume, di darsi al basket. Il ragazzo non è molto convinto: il colpo decisivo glielo dà un politico locale che, in visita al villaggio, smazza ai genitori una bella mazzetta, e se lo porta a Wau, cittadone di ottantamila anime dove viene arruolato dalla squadra dell’esercito. Oh, essere arruolato dalla squadra dell’esercito non è esattamente come andare al club med: il buon Manute dopo aver assaggiato le mazzate paterne, assaggia anche quelle dello stato sudanese, che si stufa presto di vedere 'sto giuggiolone che non migliora mai e che viene ricordato solo perché nel primo allenamento, in un tentativo di schiacciata, dà una dentata sul primo ferro rimettendocene un paio. Ma Bol non molla, anche perché l’alternativa è tornare a casa a badar le mucche in mezzo ai leoni (a proposito: si dice ne abbia ammazzato uno). Nel 1979 viene ingaggiato da una squadra vera. Il Catholic Club di Kartoum. Bene, direte voi. Male, invece. Perché la sfiga, con Manute, ci vede benissimo. Problema: a Khartoum la maggior parte della popolazione è musulmana, e non è che quando incontra per strada quelli della squadra cattolica li accolga con mazzi di fiori. Insomma, sò mazzate, con la differenza che stavolta Manute è un pochino cresciuto e quattro sganassoni li piazza anche lui. Resiste tre anni a Khartoum, dove, tra l’altro, si innamora di una ragazza di cui il padre non vuole nemmeno sentire parlare. Manute, tanto per gradire, se la sposa ed i rapporti con la famiglia vanno decisamente a sud. La sua tribù lo allontana, ma Manute tornerà, eccome se tornerà. La nazionale sudanese inizia a convocarlo ed in un’imperdibile amichevole con la nazionale egiziana, Don Feleey - coach di Fairleigh Dickinson University -, folgorato dal gigante, decide che ne farà il centro del suo futuro.
|
In realtà, Manute aveva già interessato i Clippers. Che però, dopo aver visto un 2.36 di 84 chili, avevano fatto rapidamente marcia indietro. Dicevamo: Feeley gli chiede di andare negli Usa. Manute, che del Sudan ne ha gli zaini pieni, accetta con la straordinaria ingenuità che caratterizzerà tutta la sua vita. Qui fermiamo la sceneggiatura perché l’impatto di Bol con gli Usa va racontato. Allora: il ragazzo non parla inglese, sa scrivere il suo nome e poco altro e viene catapultato in una realtà che definire agli antipodi con quella che ha vissuto fino a quel momento è puro eufemismo. Giusto per metter sulla bilancia: fino al giorno prima il suo principale rischio di morte era legato ad un leone incazzato che usciva da una fronda. Il giorno dopo era ricollegabile ad uno spacciatore irritato che sparava in mezzo alla via. Dura. E visto che i suoi compagni, provenienti da ghetti più o meno famosi, di integrarlo ne hanno voglia zero, ecco che per Manute l’orizzonte si fa fosco. Manute cambia un paio di università fino ad arrivare a Bridgeport, dove capiscono che piazzarlo in mezzo all’area non è poi un’idea così malvagia. Lui ringrazia e piazza 22 punti, 13 rimbalzi e 7 stoppate di media. La Nba un occhio al ragazzo prova a darglielo, anche se quel mikado, rapportato ai marcantoni del piano di sopra, lascia ampie ombre sulla riuscita dell’operazione. I Bullets nel 1985 ci provano e lo scelgono al secondo giro, attirati più dal colpo pubblicitario ("il più alto giocatore di sempre") che dal giocatore stesso. Tant'è vero che sull’onda lunga del trash, l’anno dopo sceglieranno Mugsy Bogues , il giocatore più basso di sempre, ampliando i confini del termine "ridicolo". Manute arriva al piano di sopra e anche qui il ragazzo è un attimo disorientato: il GM lo accompagna a comprare un auto, il venditore gli chiede: ‘Paga con un assegno?’. E lui: ’Cos’è un assegno?’. Nonostante questo, già dal primo anno Manute si dimostra una spaventosa macchina da stoppate: 5 di media, con accompagnato il record si stoppate in un tempo, 11 (!), ed in un quarto, 8. E’ poi l’unico giocatore ad aver stoppato quattro giocatori nella stessa azione, record che condivide con Russel, ma qui finiscono le analogie tra i due. Perché Manute in attacco è alle aste: ci si prova in qualsiasi maniera, ma evidenti limiti fisici gli impediscono realmente di giocare. Che si fa? Si fa che arriva Don Nelson, uno dei più pazzi visionari della storia del giochino, che decide che l’unica maniera per far in modo che Manute non faccia danni sotto il canestro d’attacco, è semplicemente non farcelo arrivare. Lo piazza sulla linea da tre, con l’idea che passi la palla e che corra in difesa a stoppare qualunque cosa voli dalle sue parti. Nella seconda partita, alla prima palla che tocca, si trova quattro metri davanti. La passa? Macchè. Tira da otto metri. Solo nylon. I gonzi in tribuna appoggiano l’hot dog e impazziscono e Bol valuta che diventare un tiratore non è così male. La sua notorietà va alle stelle, la pubblicità se lo contende e quando arriva ai Philadelphia 76ers, corre l'anno 1990, viene trattato come una star nonostante un 20% da tre ed una media di 2.6 punti a partita non inducano esattamente all’ottimismo. A Philadelphia si va sul solito piatto della casa: tante stoppate, qualche bomba, qualche siparietto con Barkley e poco altro: il tutto finchè quel disgraziato fisicaccio regge. Perché un fuscello sballottato per dieci anni da degli armadi di 130 chili, prima o poi deve pagare il conto. Nella stagione 1993/94, le ginocchia di Manute dicono basta: lui riesce a giocare solo 14 partite, poi valuta che è meglio lasciar ad altri il palcoscenico e appende gli scarponi al chiodo all’inizio del 1995.
|
Dopo qualche mese negli Usa da ‘disoccupato’, sente il richiamo dell’Africa. In Sudan è salito al potere il partito musulmano che sta massacrando i cristiani ed i ribelli. Tra i ribelli ci sono anche i Dinka, la tribù di Manute, i suoi fratelli. Bol torna in Sudan, deciso ad aiutare la sua gente. Appena arrivato comincia a distribuire soldi a pioggia ai suoi parenti. Oh, detto che il padre aveva ottanta mogli, così, ad occhio, di bocche da sfamare il buon Manute se ne trova parecchie. Il saldo del conto corrente va presto assottigliandosi. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che anche i suoi affari negli Usa vanno a ramengo, sommergendolo letteralmente di debiti. Una piccola ancora di salvataggio gli arriva dalla Romagna. La Libertas Forlì che, nel settembre 1996, spinta da uno sponsor in cerca di visibilità, lo porta al Palafiera, così, tanto per vedere l’effetto che fa. Prime pagine sui giornali, ne parla addirittura il Tg1 delle 20.00, cosa che in Italia col basket capita assai di rado. Ma a Forlì, dove in fatto di basket non si gira con la sveglia al collo, trattano il pinnolone come si fa con Moira Orfei e tutti i suoi elefanti: cioè come un fenomeno da circo. Foto coi bambini, risate, colpi di gomito. E dopo appena due partite a sparar insensate bombe, coach Massimo Mangano lo porta in aeroporto con destinazione Sudan. Il ritorno a casa non è certo una carrambata: la guerra aumenta di volume, i soldi finiscono e Manute prova a sfruttare la sua popolarità fondando la Ring True Fondation per raccogliere fondi presso i suoi amici americani. Nell’estate 2001 il governo musulmano decide che la pulizia etnica è l’unica soluzione per stroncare i ribelli. Manute viene catturato, gli viene sequestrato il passaporto ma riesce a fuggire e dopo un viaggio di otto mesi, riesce a raggiungere Il Cairo in Egitto, in compagnia della nuova moglie, mentre la ‘vecchia’ lo aspetta amorevolmente nel Conncticut. Ma, come dicevamo, la sfiga con Manute ha una vista da falco. Bol arriva in Egitto nel dicembre 2001, esattamente due mesi dopo l’11 settembre: per lui, senza passaporto, tornare negli Stati Uniti da un paese musulmano è una strada leggermente in salita.
|
Intanto che i suoi amici, tra cui l’inseparabile Chris Mullin, smuovono mari e monti per riportarlo indietro, bisogna pur mangiare. Manute sfrutta il suo nome e fonda una scuola di basket. Della serie ‘le vie del destino sono infinite’ alla sua scuola di basket si iscrive un altro dinka epurato dal regime, quel tal Luol Deng che dopo essere arrivato in Inghilterra, ottenuto asilo ed essere diventato tifoso del Tottenham, varcherà l’oceano per far la stella nei Bulls. Ma torniamo a Manute: riesce, non si sa come, ad ottenre un visto e se ne ritorna a casa. In teoria sarebbe bigamo, ma nessuno fa lo schizzinoso. Tranne la prima moglie: che lo pianta e chiede gli alimenti. Che sarebbe poi il minore dei problemi: perché tornato negli Usa, le banche una visitina a casa Bol per ottenere quanto loro spetta la fanno sempre volentieri. La pensione Nba, che è pur sempre di cinquantamila presidenti spirati, basta a malapena per coprire le falle. Manute, ancora una volta, usa l’unica cosa che gli rimane. Il suo nome, la sua fama. La prima chance gliela offre la WWF, che non è quella del panda, ma la World Wrestling Federation, quella che mette due bestioni in mutande su un ring a far finta di far a cazzotti davanti a cinquantamila beoti. La WWF organizza un incontro tra Manute ‘The King’ Bol (mah…) e Darryll ‘Baby Gorilla’ Dawkins. Si, quel Dawkins. Un derby tra ex-forlivesi. Quando tutto sembra fatto, fortunatamente è il più sveglio Dawkins a tirarsi indietro, percependo che lo spettacolo sarebbe stato agghiacciante. Però Manute continua ad aver bisogno di soldi e darsi alla boxe può essere un’idea. Alla Boxe? Già. Bol partecipa da concorrente al memorabile ‘Celebrity Boxing Show’, una delle idee televisive più aberranti della storia dell’emisfero occidentale. Il concetto è: si prendono degli ex volti noti allo sbando, li sbatte su un ring con guantoni e paradenti, li si fa menare e ci si gode lo spettacolo. Tanto per dire, il match più seguito è quello tra Tonya Harding, la pattinatrice che nel 1994 bastonò la sua rivale Nancy Kerrigan, e Paula Jones, quella della fellatio con Bill Clinton. Mica robetta. Manute viene piazzato contro un ex giocatore di footbal, tal William ‘The Refrigerator’ Perry, con cui, non si sa come, vince e intasca il gruzzoletto, la cui metà viene spedita in Sudan a finanziare i ribelli.
|
Finita qui. No, certo. Larry Linde, GM degli Indianapolis Ice, lo ingaggia come portiere. Sì, ma di che sport? L'Hockey, ovvio. L’idea è: piazzarlo davanti alla porta, fargli fare un centinaio di foto e arrivederci e grazie. Manute, che - a naso - nel Sudan difficilmente ha giocato ad hockey, nella prima partita rimane in panchina nel primo quarto, poi sale sugli spalti a raccogliere fondi per la sua fondazione, poi capisce che la sua figuraccia può concludersi lì. Dopo aver avuto un incidente automobilistico in cui ha rischiato tutti i suoi 2 metri e 36 (ricordate la sfiga?) oggi, con l’aiuto dei suoi amici, è riuscito, più o meno, a sistemarsi economicamente e vive ad Hartford, nel Connecticut, con la moglie Hajak ed il figlio. Ma, conoscendo il personaggio, è dura credere che la storia di Manute finisca qui.
|
![]() | Manute Bol nella |